martedì 28 dicembre 2010

Ho detto «buongiorno» a Roberto Saviano

Una settimana fa l’ho visto al ristorante. Ero seduta ad un tavolo vicino all’ingresso. Sola, perché la mia amica era appena andata al bagno. Tra gli uomini che gli stavano attorno la sua faccia era illuminata da quell’aura di “visibilità” che, come ha dichiarato lui stesso più volte, gli permette di vivere. Ma quando mi è passato accanto l’unica parola che sono riuscita a dirgli è stata «buongiorno». Mi sono trattenuta dal dirgli «ciao», mi sono trattenuta dal pronunciare ad alta voce il suo nome, mi sono trattenuta dall’alzarmi in piedi per stringergli la mano. Non per pigrizia sociale ma per paura. Di rompergli le scatole. Ma, soprattutto, di romperle alla sua scorta.

Ovvio, non mi aspettavo di vederlo. Ma soprattutto non mi aspettavo di scoppiare a piangere qualche istante dopo. Perché?
Forse perché l’ho ascoltato a Vieni via con me. A volte scettica, a volte critica, a volte incantata. La prima puntata gli ho pure spento il televisore in faccia. L’ultima l’ho vista fino alla fine.
Forse perché circa due mesi fa ho cominciato a leggere Gomorra, ma non riesco ad andare avanti. Leggendolo prima di andare a letto – unico momento possibile della giornata – faccio degli incubi che è meglio non raccontare.
Forse perché in quei giorni ero nella tua stessa città proprio per imparare a raccontare il mondo.
Forse perché mi è sembrato di vederlo in gabbia, anche se protetto da facce amiche.
Forse perché il suo «buongiorno» è stato accompagnato da un sorriso.

«Mi sono tal­mente dis­a­bit­u­ato all’idea di poter uscire la sera con gli amici che il giorno in cui mi dovrà ricap­itare verrò forse preso da un attacco di ago­rafo­bia. Essere invi­tato fuori a cena o al ris­torante è tal­mente com­pli­cato (la scorta deve con­trol­lare prima il locale per la bonifica) che alla fine ci rinuncio»[1].

Parlava così un anno fa. Se questo è un uomo…



[1] Da un’intervista rilasciata da Roberto Saviano a Carlo Brambilla e pubblicata il 10 gennaio 2010.


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