mercoledì 23 novembre 2011

Marcello Nardis, un giovane tenore d’altri tempi

Marcello Nardis
Indossa il tabarro - ne ha di tutti i colori, rigorosamente confezionati dal suo sarto trevigiano di fiducia - per preservare il fisico e la voce dalle intemperie; usa un linguaggio forbito e acuto anche nei colloqui più informali; al ristorante ordina solamente piatti “da tenore”. Lui è Marcello Nardis, un cantante romano di nobile discendenza che ha già all’attivo un’intensa carriera internazionale. Guai a chiedergli l’età, anche se - a guardarlo bene - non gli si dà tanto più di un quarto di secolo. Giovane di sicuro, anagraficamente parlando, ma già esperto conoscitore dei Palcoscenici più prestigiosi del mondo, tanto da vantare primati a dir poco esclusivi: l’aver cantato in Italia, fino ad oggi, più di 65 volte la Winterreise (Viaggio d’inverno) di Schubert; l’aver eseguito (a New York), ed eseguire tutt’oggi, lo stesso ciclo di Lieder cantando e suonando contemporaneamente (oltre ad avere una solida tecnica vocale ed un timbro molto ricco di sfumature espressive, infatti, Nardis ha anche una consolidata competenza a livello pianistico- diplomato in pianoforte, è stato uno degli ultimissimi allievi di Rodolfo Caporali). Altro traguardo raggiunto, l’essere stato ospite quest’anno del Festival di Beyreuth, tempio sacro della musica tedesca.

Lo scorso 8 novembre ha inaugurato la Stagione di Concerti del Conservatorio “Arrigo Pedrollo” di Vicenza, eseguendo in duo con il pianista Antonio Maria Tessoni, proprio la Winterreise di Schubert (leggi l'articolo precedente). In tal occasione abbiamo fatto un'intensa chiacchierata...

Marcello Nardis, primo tenore italiano ad essere stato invitato a cantare Lieder di Schumann nel Tempio sacro della musica tedesca. Questo significa, non solo una preparazione vocale e musicale di prim’ordine, ma anche una pronuncia tedesca impeccabile e uno studio interpretativo, nonché filologico, estremamente accurato…
Certamente posso rispondere che ad alcuni appuntamenti non si arriva per caso. Ho cercato in questi anni di confrontarmi massimamente con gli interlocutori che ho ritenuto più qualificati  e con i quali, soprattutto a livello internazionale, ho avuto la fortuna di collaborare. Certamente in ambito liederistico mi sono riferito a vere e proprie ‘leggende’ (del pianismo) di ogni tempo.  Ma anche ho avuto l’opportunità di essere scelto da direttori e orchestre di livello massimo, in contesti assolutamente privilegiati e privilegianti. Esperienze che hanno costituito un innegabile stimolo ad un miglioramento continuo e che,  una volta sedimentate,  hanno garantito la mia crescita non solo artistica ma anche umana. Concludo facendo mia la sentenza: non si finisce mai di imparare e di perfezionarsi.

Un’esecuzione, oltre agli imprescindibili fondamenti del mestiere, comporta assoluta concentrazione e notevole forza fisica. A volte sconcertante nella sua naturalezza. Come dimostrato nella “Maratona schubertiana” per “Festa Europea della Musica 2011”,  nell’ambito della quale Lei ha cantato di continuo, senza fermarsi per oltre tre ore, i tre cicli schubertiani della Schöne Müllerin, della Winterreise e dello Schwanengesang con tre diversi pianisti.…
La naturalezza è solo il momento finale e risultante di un lungo e lento processo di confidenza. Confidenza con il proprio organo vocale, confidenza con il repertorio. Solo allora ciò che non è  naturale (e non potrebbe in alcun modo esserlo) lo diventa. Cerco spesso di chiarire questo punto: la semplicità che si riconosce quale cifra distintiva nel mio canto non sia sinonimo di facilità o, peggio, di “estemporaneità”. Nessuna vocalità è “facile” per natura, meno che mai quella del tenore. Nessuna voce si piega volentieri a certe timbriche. La spontaneità è il frutto di studio attento ed accorto teso al raggiungimento di un obiettivo “fisico” che bisogna già avere chiarissimo nella mente. Uno studio costruttivo consiste di tecnica vocale ma anche auditiva: l’orecchio si deve abituare alla correttezza del suono prodotto e, in un certo senso, inconsciamente sorvegliarlo. In un canto ininterrotto di più di un’ora - penso ad una esecuzione in concerto della Winterreise, tanto per esempio - non ci si può affidare al caso. Bisogna saper ascoltare ed ascoltarsi. Se l’organo vocale lavora correttamente ed è propriamente allenato, non si stanca, perché non si sforza. Il termine “maratona” non può che ribadire concretamente l’approccio a cui mi riferisco: impiego generoso, ma attento, delle proprie risorse per arrivare al traguardo.

Il canto, nei Lieder, non la fa da padrone assoluto. Il pianoforte concerta con la voce, creando una sin-tonia musicale ed emotiva. Quando poi il tenore canta e suona allo stesso tempo, dando vita ad anomale ma alquanto originali esecuzioni, il risultato artistico è sorprendente...
Certo cantare e suonare contemporaneamente costituisce una particolarissima performance che esercita un innegabile appeal sul pubblico. Devo dire che quando mi cimento in questa impresa, riesco a calarmi ancora più profondamente, se possibile, nell’unicum musicale, ed il canto ed il “mio” suono del pianoforte diventano due binari paralleli di una medesima, totalizzante ed assolutamente coerente ispirazione musicale. L’unico pericolo è lasciarsi andare: bisogna mantenersi concentratissimi, tanto sulla dimensione vocale che su quella pianistica; aspetti che, entrambi di per sé, richiedono all’ interprete un notevole impegno. Non è un caso che questa combinazione non abbia precedenti nella prassi esecutiva. Il mio segreto, credo, consiste nel fatto che suonando dimentico di essere cantante e cantando dimentico l’impegno tecnico del pianista. Così tutto si ammanta di assoluta, integrata “franchezza”: non molto dissimilmente, ho la presunzione di crederlo, di quanto doveva avvenire con Schubert seduto al pianoforte, intento a cantare e suonare per gli amici i “suoi” Lieder.

Il rapporto tra cantante e pianista, invece, implica peculiarità ben differenti…
Alla base di tutto deve esservi stima reciproca. Ci si sceglie. Non sempre, ma molto spesso. Le combinazioni non sono quasi mai casuali. Solo se scatta un feeling particolare si torna a collaborare insieme. Devo dire che in questo sono stato molto, molto fortunato. Altra inclinazione vincente è la versatilità, la voglia di mettersi sempre in gioco e sperimentare sempre soluzioni nuove e diverse. Mai imporre il proprio punto di vista, portare, semmai, il partner a condividerlo convintamente. O essere io stesso sempre pronto a sperimentare nuove soluzioni. Il mio background pianistico agevola notevolmente questo equilibrio. Purtroppo i cantanti non godono di buona fama presso gli altri strumentisti.

Antonio Maria Tessoni
Diverso pianista, diversa concertazione. Come descrivere quella con il M° Antonio Maria Tessoni?
Antonio  ha sùbito attirato la mia attenzione per una coscienza  e conoscenza “geometrica” del testo poetico, quanto a precisione e puntualità. Tessoni è un fine dicitore dello strumento, un forbìto distillatore di suoni e di atmosfere: egli identifica nel verso il suono che riesce poi con puntuale esattezza a produrre pianisticamente. Parlando di Lieder sembrerebbe un assioma ovvio. Posso garantirle che tra i pianisti italiani non è così scontato padroneggiare “alla lettera” il testo che ispira la musica suonata. Prevale sempre una certa non-conoscenza ed una concentrazione di stampo solistico che si focalizza, semmai, più sull’ insieme sonoro che su quello “testuale”.

L’attività liederistica va di pari passo con quella operistica. Ciò implica un cambio di ruolo, di “maschera” considerevole, da quello drammatico di “poeta di pene e d’amor” a quello teatrale di “cantor in scena”…
Sono due aspetti di una medesima realtà. Trovo utilissimo l’apporto dell’esperienza teatrale nel repertorio liederistico, nella gestione “scenica” del concerto e nell’ approccio “fisico” all’evento stesso. Risulta altrettanto utile la frequentazione liederistica che insegna a gestire la voce esattamente come uno strumento a servizio della parola o meglio ancora dell’ idea che si vuole rappresentare “acusticamente” e  che, soprattutto,  rende impermeabili alle molte incrostazioni e atteggiamenti di maniera che una tradizione vocale post-verista continua, inspiegabilmente a voler replicare nel teatro d’opera.

Un successo dopo l’altro conquistato attraverso un’estrema dedizione alla passione della propria vita, ma anche qualche privazione…
Pochissime le privazioni, molte le continenze. Al di là di ogni retorica, nella misura risiede il segreto per  la vera virtù. Ed io aggiungo, anche in una perfetta organizzazione - agenda alla mano -  delle proprie risorse fisiche e mentali.

Portare la propria voce - attraverso la musica vocale colta - in tutto il mondo, è ben diverso da Paese a Paese, da pubblico a pubblico, da cultura a cultura, dove lo stato dell’arte è più o meno tenuto in considerazione…
Sì, è quasi scontato notare le differenze. Il pubblico risente ovviamente di tradizioni culturali molto diverse. Credo, tuttavia, che di fronte al valore intrinseco di certe proposte il pubblico, anche quello culturalmente più distante o meno avvezzo, possa rimanere sempre incuriosito. Un concerto di qualità lo si riconosce. Sempre. E lo stupore può essere un primo passo verso la conoscenza. Questo mi è capitato in Italia dove bisogna vincere il terrore dei molti direttori artistici totalmente restìi a “maneggiare” il repertorio liederistico. Sono paure totalmente ingiustificate  (o forse, invece,  giustificate da scarsa conoscenza) che fortunatamente vengono fugate al termine dei concerti, quando si prende atto che la musica - vocale- ha la stessa presa sul pubblico di un quartetto di Beethoven o di una sonata di Brahms. La parola cantata, direi, talvolta “recitata” ha il pregio di veicolare sempre e comunque un contenuto, una suggestione che “cattura” l’ascolto prescindendo dalla estraneità con la lingua straniera.

Schubert nella sua Winterreise percorre, in poesia e musica, un cammino universale, quello che ogni uomo compie sulla Terra, tra gioie e dolori. Oggi, a che punto è arrivato il viaggio umano ed artistico di Marcello, il tenore dal sangue blu?
Ad un buon punto: se mi volto indietro in una ideale Rückblick, per seguire il suo non peregrino parallelismo con la Winterreise, mi accorgo di aver “pensato” molto, scelto molto, fatto molto. Non aver quasi mai perso il mio tempo. Sono assolutamente convinto che il “fare” sia meglio del “non-fare”. Questa, se posso, è la soddisfazione che onestamente mi riconosco: essermi conquistato, non facilmente, un mio spazio, senza sconto alcuno o agevolazioni di sorta; al contrario, vincendo diffidenze, resistendo ad opposizioni manifeste, tralasciando la gratuità di inimicizie e malcelate invidie indirizzate contro una mia situazione di partenza innegabilmente privilegiata che appartiene alla mia storia personale e che non intendo in alcun modo minimizzare.

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